giovedì 20 febbraio 2014

Why Actors Act Out



di James Franco


Lo stravagante comportamento adottato di recente da Shia LaBeouf, l'attore ventisettenne meglio noto per il suo ruolo nella saga dei "Transformers", ha portato ad un frenetico proliferare di commenti e articoli da parte della stampa. Sebbene l'assennatezza di certe sue azioni sia discutibile, da attore e artista, io sono incline ad assumere un atteggiamento empatico nei confronti della sua condotta.

Passiamo in rassegna i fatti. Tutto è cominciato a dicembre, quando LaBeouf è stato accusato di plagio dopo che un critico notò delle somiglianze tra il suo cortometraggio "Howard Cantour.com" e una storia dell'autore di graphic novel Daniel Clowes. LaBeouf si è scusato su Twitter, ammettendo di aver "omesso di citare la fonte esatta" ("neglected to follow proper accreditation"), ma poi si è scoperto che la scusa stessa è stata formulata usando le parole di qualcun altro. Geniale o patologico?

Poi, all'inizio di questo mese, vedendo che l'attenzione dei tabloid era tutta rivolta verso di lui, si è presentato alla première del suo film "Nymphomaniac" con un sacchetto di carta in testa con su scritto "I am not famous anymore" ("non sono più famoso"). E la settimana scorsa ha messo in scena, in una galleria di Los Angeles, una performance artistica chiamata "#IAmSorry", in cui i visitatori, a turno, si sedevano di fronte a lui che li guardava attraverso i fori ritagliati da un sacchetto di carta simile.

Questo comportamento può essere segno di tante cose, dall'esaurimento nervoso alla semplice avventatezza giovanile. Spero per lui che non sia niente di serio. Certamente spero - e sì, so che questa ipotesi può sembrare pretenziosa o anche solo meramente ridicola - che queste iniziative siano intese come espressioni di una performance artistica, una performance in cui un giovane con una professione molto pubblica prova a rivendicare il suo personaggio molto pubblico.

Molti attori, dai tempi di Marlon Brando, sono andati contro la loro professione e la conseguente attenzione alla propria immagine pubblica. Le interpretazioni di Brando hanno rivoluzionato il modo di recitare in America proprio perché non sembrava che "recitasse", nel senso che non interpretava. Marlon Brando era. Fuori dallo schermo sfidava in continuazione il controllo del sistema degli studios sulla sua immagine, permettendosi di prendere e perdere peso, scegliendo ruoli considerati al di sotto delle sue potenzialità o rifiutando l'Oscar come miglior attore nel 1973. Tutti atti di ribellione contro un'industria che praticamente forzava un attore a identificarsi con l'immagine pubblica di sé, ma allo stesso tempo la strappava via da lui.

A volte io ho bisogno di dissociarmi dal mio lavoro e dalla mia immagine pubblica. Nel 2009 ho partecipato alla soap opera "General Hospital" e, contemporaneamente, stavo lavorando ad un film che poi avrebbe ricevuto nomination agli Oscar e plauso della critica. Questa decisione è stata, in parte, uno sforzo per scuotere le aspettative che la gente ha su un attore di cinema e per indebolire la tacita - o non così tacita - gerarchia dell'intrattenimento.

Da attore, ti trovi spesso nella posizione scomoda di essere la parte più esposta di un progetto, quando in realtà sei quello che ha meno voce in capitolo su quello che sarà il risultato finale. In una delle scene più impressionanti di "I'm Still Here", film del 2010 co-sceneggiato da Joaquin Phoenix, che pretendeva di documentare la sua vita nel momento in cui si ritirava dalla recitazione e si dava all'hip-hop, Phoenix percorre il cortile di casa sproloquiando sulla sottomissione implicata nel mestiere dell'attore. Anche se il progetto era, in ultima analisi, una messa in scena (all'inizio, però, non era chiaro se lo fosse, perché, durante le riprese, Phoenix era costantemente nel personaggio, anche in pubblico), il film resta un'operazione molto seria per documentare il bisogno che ha un attore di togliere un po' di potere alla sua immagine.

Qualsiasi artista, indipendentemente dal suo campo, può toccare con mano la distanza che c'è tra il proprio io autentico e la sua immagine pubblica. Ma dal momento che noi, attori di cinema in particolare, sperimentiamo la fama in misura maggiore, sentiamo che la nostra immagine pubblica è alla mercè di forze al di fuori dal nostro controllo. E quando ci ribelliamo contro quelle stesse mani che ci nutrono, inevitabilmente si scatenano i commenti più frenetici, che danno avvio ad una serie di reazioni: ci si comporta male e segue pubblicità negativa, poi ci si comporta male in risposta a quella pubblicità negativa e segue ancora più pubblicità, e così via.

Partecipare a questo botta e risposta è un tipo di critica, un modo per attirare l'attenzione dei media, per far sì che le loro reazioni eccessive ad azioni essenzialmente irrilevanti rivelino tutta la vuotezza della loro stessa raison d'être. Credetemi, questo gioco del cucù può creare dipendenza. Shia LaBeouf recita da quandìera bambino e spesso un attore sente il bisogno di abbattere quella creazione pubblica che lo costringe, proprio nel momento in cui da ragazzo, diventa adulto. Io credo che il progetto di LaBeouf, se di progetto si tratta, sia onesto. Spero solo che stia molto attento a non sprecare tutto ciò che di buono ha ottenuto facendo lìattore, per farci vedere che è un artista.


fonte NYTimes, traduzione Chiara Fasano

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